La solitudine è un sentimento doloroso che riflette uno stato di angoscia connesso ad una percepita discrepanza tra la quantità e la qualità delle relazioni sociali che abbiamo e la quantità e la qualità di quelle che invece vorremmo.
E recentemente, degli studi suggeriscono che vi sia un legame tra questo senso di solitudine e il diabete di tipo 2.
Più nello specifico, costituendo la solitudine a tutti gli effetti uno stato di stress psicologico, quest’ultima potrebbe causare un’attivazione generale delle risposte allo stress dell’organismo, portando dunque ad un aumento del rischio di diabete di tipo 2.
A tal proposito, un ultimo studio della Western Norway University of Applied Sciences di Berge, ha coinvolto più di 230.000 persone (il Trøndelag Health Study [studio HUNT]) , consenzienti a concedere i propri dati sanitari (basati su questionari di autovalutazione, esami medici e campioni di sangue), in un periodo di follow-up di 20 anni.
Sebbene i meccanismi esatti non siano completamente chiari, si ritiene che l’attivazione delle risposte fisiologiche allo stress, nel tempo, svolga appunto un ruolo centrale nell’eziologia del diabete. Ciò sembrerebbe comportare delle risposte del sistema nervoso adrenergico e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA). Ad esempio, l’attivazione dell’asse HPA porta a un’elevata secrezione di cortisolo, che a sua volta conduce ad un aumento della glicogenolisi e ad una temporanea resistenza all’insulina.
In particolare, questo processo coinvolge anche la regolazione da parte del cervello dell’appetito e del comportamento alimentare e, soprattutto, un aumento dell’appetito di carboidrati, con conseguenti livelli elevati di zucchero nel sangue. Ad esempio, è stato dimostrato che punteggi più alti sulla solitudine sono associati a un maggiore consumo di bevande zuccherate e cibi ricchi di zuccheri e grassi. In questo contesto, dato che la solitudine induce uno stato di stress cronico e può portare a comportamenti alimentari non salutari, è ragionevole presumere che esista un legame diretto tra solitudine e rischio di sviluppare questo tipo di diabete.
È stato riscontrato che un’esposizione alla solitudine potrebbe portare anche a sintomi depressivi e/o disturbi del sonno che, da mediatori, altererebbero i livelli di cortisolo e glucosio, conducendo come risultato, un aumento del rischio di diabete.
Al momento tuttavia, resta comunque un’incognita il meccanismo biologico alla base del legame emerso.
Ma di certo, questi si configurano come risultati non poco preoccupanti.
La solitudine pertanto, è una condizione mentale che, se ben gestita, e presa come un momento di raccoglimento ed intimità -in cui appunto dedicare del tempo a sé stessi-, può rivelarsi costruttiva.
Ma accade non di rado, soprattutto al giorno d’oggi che, al contrario, prevalga l’accezione negativa del termine, e viene così accostata ad uno schiacciante isolamento, che comporta sfiducia in sé stessi ed una lacerante sofferenza.
Dal momento in cui si vive un profondo stato di solitudine, e ne si avvertono i sintomi, sarebbe dunque bene non sottovalutarli, ed intervenire subito chiedendo aiuto, per evitare di sfociare in un alterato stato di depressione.
Andare dallo psicologo non è “roba da pazzi”
Trascinare le proprie ferite nel tempo, potrebbe infatti avere un prezzo molto caro da pagare.
Eppure, far emergere le lesioni emotive, tende a costituire un processo tutt’altro che semplice e rapido.
Esporsi alla propria vulnerabilità, e riconoscere la presenza di un malessere interiore dentro di sé, è più difficile da metabolizzare rispetto ad un malessere fisico, in quanto il corpo è, sotto questo punto di vista, più “governabile”.
A tal proposito, un contesto che esalta la forza, l’autodeterminazione, in cui tutto dipende sempre e soltanto da te, perché appunto “chi fa da sé, fa per tre”, porta a vivere questa vulnerabilità, come una malattia della quale è meglio occultare i sintomi.
Ragione per cui, la figura dello psicologo, viene percepita e vissuta come motivo di vergogna rispetto ad un qualsiasi altro medico.
È estremamente comune infatti la falsa credenza relativa alla figura dello psicologo, come specialista curante la pazzia e l’anormalità.
Quando invece, al contrario, rivolgersi ad una figura esperta in grado di leggere i problemi dall’esterno e dunque, in maniera oggettiva, può aiutare a mettere in luce le proprie zone d’ombre ed i propri limiti, in modo da comprenderli meglio, approfondirli, ridimensionarli e superarli una volta per tutte.
Si tratta di mettere al centro della vita il proprio benessere, per esplorarsi e pensarsi in modo del tutto nuovo, migliorando la propria esistenza accettando i propri limiti ed infine rivalutandoli.
La vulnerabilità quindi, non è assolutamente un qualcosa di sbagliato da condannare, proprio per il fatto che tutte le esperienze fondamentali della vita umana, passano per l’accettazione di quest’ultima e, se non si accetta questa condizione, ci si preclude dalle esperienze più belle ed importanti.